Articolo a cura di | Alessandro Pesce
“Jules è una medium spirituale, in uno stato di debolezza emotiva, e fa parte di una squadra americana di investigatori televisivi sul paranormale. Insieme alla sua troupe televisiva si reca in Malesia, a Fraser’s Hill, all’interno di una casa che si ritiene infestata, per raccogliere prove. Ben presto scoprirà che la pericolosa entità che abita la casa potrebbe avere un legame con il suo misterioso passato. Gli ultimi proprietari della casa, Ian e Martha, affermano di aver sperimentato strani disturbi. All’inizio, le affermazioni della coppia sembrano contraddittorie e la squadra investigativa sospetta che i due siano solo in cerca di pubblicità, ma Jules subisce presto una orribile esperienza nel seminterrato, che porta tutti a credere che ci sia qualcosa di terribile e di vero in quella casa. Man mano che la squadra si addentra nel mistero, tutti si imbattono in possessioni e apparizioni più terrificanti, peggiori di quanto mai sperimentato nelle precedenti investigazioni. Jules, che ha avuto un incontro soprannaturale da bambina, sembra essere l’unica in grado di affrontare la situazione.”
Quando le radici del male accarezzano sentieri battuti innumerevoli volte, si corre il rischio di trovarsi davanti ad un qualcosa che non riesce a catturare completamente lo spirito delle più nobili intenzioni. Don’t Look At The Demon prende spunto da vere pratiche religiose, ora lasciate agli archivi storici e conservate negli angoli più remoti della memoria di anziani monaci; senza lasciar traccia e, specialmente, senza la possibilità di tramandare il verbo a generazioni future. La pellicola, diretta da Brando Lee cerca (senza riuscirci) di affondare le mani dentro un qualcosa di pericoloso ed oscuro, tenendo la contemporaneità come piccolo recinto esterno, in modo da catalizzare l’intero focus sulla trama e cercando di analizzare in modo sterile un cammino che, progressivamente, compie il suo corso. Questa costante, però, non riesce mai a decollare, tenendo sterile ogni situazione che si viene a creare durante il percorso simil-evolutivo del racconto e, in più occasioni, riuscendo addirittura ad annoiare. Se, nella prima metà di pellicola ogni intermezzo è utile per spianare la strada alla trama, nella seconda si crea quella sorta di imbarazzante caduta rovinosa dai propri lacci intrecciati ; Don’t Look At The Demon inciampa sulle proprie dinamiche senza aver capito quale tassello sia venuto a mancare. La storia scorre senza una precisa logica e i personaggi si scambiano i ruoli con la confusionaria strategia “di” voler, per forza di cose, stupire il pubblico; generando però la conseguenza nettamente opposta. La nota positiva e, probabilmente, punto che in una certa maniera non stronca definitivamente una bocciatura solenne al lavoro di Lee è la sontuosa Fiona Dourif (franchise de La bambola Assassina & Chucky, The Blacklist) , qui in veste di proto-Medium capace di entrare in contatto con l’aldilà. La sua storia è particolarmente riuscita e, in più occasioni, ci si trova ad interessarsi di più del suo passato che per la storia in corso. I suoi trascorsi con il mondo degli spiriti parte da molto lontano e man mano che la trama cerca di fare il suo svolgimento vengono forniti frammenti che chiudono un cerchio perfettamente espresso. Il resto è un minestrone di citazioni che variano dalla saga originale de La Casa e derivati quali Quella casa sul Bosco, fino addirittura alla velata carezza Tricolore su sequenze che riportano alla memoria L’anticristo di Alberto De Martino. Il fattore che però più disturba lo sguardo è l’eccessivo e ingiustificato utilizzo di CGI nelle (e alle) figure spettrali : il lato tecnico sembra il risultato di una comunissima applicazione gratuita per SmartPhone. Primi piani, movimenti improvvisi davanti allo schermo non riescono MAI a spaventare o anche semplicemente generare quella scarica involontaria sullo Jumpscare : Ogni “demone” risulta quasi una parodia del filone The Ring (o RingU) creando nella mente dello spettatore un perenne Deja-Vu dove identificare il film di turno risulterà l’aspetto motivazionale del normale proseguo di visione.
Insomma; poche idee e tutte molto confuse che si susseguono dentro ogni reparto, da quello visivo a (ultimo ma non per importanza, anzi) quello sonoro; sempre impostato su toni troppo vivaci ed equalizzati ad un volume che non crea mai nessuna atmosfera utile a cadenzare lo svolgimento della specifica azione.
Il “buono” è lasciato alla già citata bravura della celebre figlia di Brad “Chucky” Dourif e all’andatura rapida del racconto. Don’t Look At The Demon non da niente al genere ma nemmeno toglie qualcosa; Fa il suo senza grandissime pretese e gioca con i No Sense delle comparsate che, non si sa bene il motivo, vengono messe davanti alla macchina da presa per creare semplice movimento.