Articolo a cura di | Alessandro Pesce
“In un mondo post apocalittico una madre si ritrova segregata in casa con i suoi due figli, perseguitata da un demone. La sicurezza di questa famiglia dipende esclusivamente dalla loro casa e da… una corda! Un passo senza corda è tutto ciò che serve al demone per impossessarsi di loro. Ha inizio così una terrificante lotta per la sopravvivenza.”
Dai produttori di “Stranger Things” e dalla mente dietro il remake di “Le Colline hanno gli occhi”, arriva l’Horror psicologico interpretato da Halle Berry; opera in cui il male sembra riconoscere l’emotività nascosta attraverso un rito quasi esorcizzante dal comune uso. La corda non è solo un simbolo di legame, ma anche una salvezza dietro la quale rifugiarsi in modo quasi materno (da una parte) e infantile (dall’altra) come denominatore rotatorio e dove tutta la narrazione corre in un gioco senza sosta. Alexandre Aja dopo i fallimentari (a livello di critica) ultimi lavori decide di rimettersi in gioco regalando un prodotto che cerca in tutti i modi di tenere alta la tensione e dando allo spettatore un qualcosa simile alla claustrofobia nonostante gli eterni spazi aperti che circondano lo schermo. Questa strana operazione risulta un concentrato di idee confusionarie in cui i riferimenti a “Birdbox” (film del 2018 con Sandra Bullock) ed il meraviglioso “The Ritual” (2017 di
David Bruckner) si sprecano sotto ogni frame. Non sarà, infatti, difficile delineare, fin dal principio, dove il film vorrebbe arrivare e non sarà altrettanto complicato riuscire a capire che tutto porterà ad un buco nell’acqua. Sensazione che, scena dopo scena, palesa la sua triste figura sotto un’entità capace addirittura di annoiare la mente di un pubblico già svezzato. Halle Berry cerca, dal canto proprio, di salvare il salvabile, proponendo un’interpretazione sempre concentrata e senza sbavature; affiancata dai bravissimi
Anthony B. Jenkins e Percy Daggs IV , sterzando sotto ottiche non sempre intuibili (ma facilmente identificabili se si scruta oltre il confine del mainstream) e dove solo il talento attoriale dei protagonisti riesce nell’impresa di rendere fedele una narrazione tanto scontata quanto opaca e di poca concretezza. Never Let Go è una miscela di generi che, sommati tra loro, hanno la pretesa di etichettare un genere con la classica forma di Jumpscare gettati a caso in contesti poco necessari e dove l’ombra del capolavoro di
Richard Matheson “Io Sono Leggenda” interrompe il glaciale (e quasi imbarazzante) silenzio di una sceneggiatura composta da note dissonanti il cui matrimonio sembra lontano dall’essere felice e armonioso. La complessa scelta di dilatare i tempi narrativi riesce, stranamente, però, ad aggiustare il tiro di un arco dall’armamentario sbeccato e riuscendo nella titanica impresa di riavvolgere ed equilibrare la mente dello spettatore sotto un riflettore emotivo in cui il pericolo “umano” entra nel vivo della sua manifestazione. Durante l’arco di costruzione degli avvenimenti, la famiglia inizia a patire l’assenza di cibo, catalizzando l’attenzione delle complessità legate alla poca lucidità. Un fattore che potrebbe sembrare banale ma che, invece, il regista riesce ad applicare con grandissima cura e senso estetico. La seconda parte del racconto, infatti, alza l’asticella su un confine in cui incubo e realtà si mescolano senza via di ritorno e dove “IL” genere prende le redini di controllo e, fattore determinante, ha la capacità di rialzarsi da continui capitomboli autolesionisti. Se da una parte sembra che la prima metà sia quasi un’opera che cerca in tutti i modi di Autosabotarsi, nella seconda parte partecipa attivamente al ricostruire un terreno arido ma dal grande potenziale. Never Let Go si divide perfettamente tra il non riuscito (ma dalle eleganti intenzioni) e il già visto, rendendo sterile il giudizio del pubblico, incapace di uscire dalla sala con la pancia piena e, con in mente, un sacco di domande la cui risposta potrebbe non piacere alla propria coscienza.
Alexandre Aja dimostra, ancora una volta un potenziale incapace di mettere in pratica i propri incubi. Inutile cercare profondità espresse dietro il “legame” solo per il semplice gusto di salvare un qualcosa che non porta da nessuna parte e quello che fa lo si può tranquillamente trovare altrove.