Articolo a cura di | Alessandro Pesce
“Marta si trasferisce insieme a sua figlia Nina a Malanotte, un piccolo paese di montagna. La bambina da qualche tempo soffre di paralisi ipnagogiche, un disturbo del sonno che può portare ad avere stati allucinatori, e Marta ha pensato che un po’ di aria di montagna e di lontananza dalla frenesia cittadina possano giovare alla piccola. La casa in cui si trasferiscono, però, è` tutt’altro che accogliente e per le strade di Malanotte non si vedono mai bambini. I sintomi di Nina cominciano a peggiorare già dalla prima notte, la bambina fa incubi sempre più vividi in cui una figura spettrale le si siede sul petto, la immobilizza e le ruba il respiro. Per Marta, madre sola in un paese che le appare sempre più sinistro, sarà ogni giorno più difficile trovare il modo di fare la cosa migliore per la sua bambina.”
Ogni angolo del Mondo ha le proprie streghe, leggende, rituali e credenze tenute sottovoce e pronunciate solo dagli anziani. La storia di Emanuele Scaringi affonda le mani da una di queste (tante) storie, ne costruisce una tela ben focalizzata alla sfida di elevare le radici del Folklore verso una territorialità che non ha niente da invidiare ai confini d’oltreoceano. L’Italia, forse più di ogni altra, assume i connotati di grotta ricca di miti e riflessioni sull’aspetto narrativo etnologico, sfiorando la primordiale essenza della paura; non è certo un caso che tutte queste tematiche si concentrino su sembianze non del tutto umane o, chi, ne prende forma, ha la grande capacità di mutare aspetti o caratteri. Tutte armi dove il regista riesce ad intersecare una sostanza capace di alternare originalità ad aspetti ricercati da un mercato, sulla carta, inarrivabili. Citare pellicole dal basso budget, diventate vere e proprie colonne, nell’ultimo periodo, potrebbe sembrare fin troppo riduttivo : Babadook, Midsommar, Possum, Hereditary e tantissime altre, affrontano la capacità di impostare il comun denominatore sull’approfondire aspetti di cultura sociale, mascherandoli da Horror nudi e a tratti violenti; non tanto per estetica quanto per natura stessa e tematiche affrontate. Pantafa raggruppa tutti questi frammenti e gli assembla al confine tra realtà e fantasia, definendo un genere capace di guardare in una precisa direzione e non voltandosi mai verso la critica popolare di chi ha il giudizio (o metro di paragone) sempre sulla spia dell’onniscienza. A tenere le redini di narrazione troviamo Marta e Nina (rispettivamente Kasia Smutniak e la piccola Greta Santi); bravissime ad interpretare i propri ruoli con un dualismo tanto sintetico quanto armonioso e simbiotico e diffondendo (a livello filmico) una sorta di realtà estranea nei confronti di un paese perfettamente disegnato. Ogni situazione che le coinvolge sembra tracciare una sorta di macchia, creando il classico brusio tipico di una realtà tanto piccola quanto invasiva e fin troppo sfacciata verso una critica ignorante, generando così una cicatrice di avversità sociale disturbante e spietata. Ovviamente tutti gli occhi sono puntati sulle “nuove arrivate” in paese e non ci si mette tanto a capire lo stato retrogrado che popola le menti degli abitanti, riportando il pubblico in un contesto fin troppo conosciuto e mettendolo, così facendo, in una situazione tanto conosciuta quanto preoccupante per inamovibile uguaglianza di contemporaneità. L’aspetto “Mistery” non tarda ad arrivare e subito si scoprono piccole crepe abili nello spazzare via ogni tranquillità psicologica, miscelando il tema sociale con quello paranormale. Questo aspetto rimarrà incerto per grandissima parte di operato e, man mano che la narrazione scorre su di un tempo dilatato e spesso “rotatorio“, non sarà semplice intuire cosa effettivamente è reale e che cosa si nasconde nell’oscurità dell’immaginazione. Le ambientazioni sono di facile immedesimazione e, anche in questo caso, lo spettatore non si troverà dentro un contesto dove trovare un lungo pensiero; tutti hanno avuto a che fare con vecchie abitazioni sbiadite dal tempo e, tutti, riusciranno ad entrare dentro il racconto dopo pochissimi secondi, mettendosi in una situazione di disagio dove ogni segno di muffa sul muro ha la forte capacità di trasformarsi in figure spettrali ed inquietanti, portando la fantasia all’interno di un recinto emotivo tutt’altro che idilliaco. Le buonissime prove attoriali delle protagoniste fan da cornice all’altra faccia della storia : la tradizione e i suoi mandanti; in questa sezione troviamo la meravigliosa “zia” Orsa, interpretata dalla monumentale Betty Pedrazzi. Il suo personaggio caratterizza tutta la parte “mistica” dell’opera, scoprendo lati sempre più nascosti di un paese il cui attaccamento alle tradizioni risulta essere un vero e proprio scudo dal sinuoso corteggiamento delle forze maligne. La donna, non solo, risulterà essere una guida (specialmente verso la piccola Nina) ma vero e proprio faro nella notte capace di riportare, alla realtà, lo stato quasi di incoscienza della bella Marta. Il tema della paralisi del sonno viene affrontato come il tipico approfondimento “sui generis“, ricamando un territorio ostile dove gli intricati pensieri di una bambina non sempre risultano essere semplicemente tali e, fattore da non dimenticare mai, analizza il concetto di dissomiglianze anagrafiche tanto care al cinema di Aster con una semplicità facilmente assorbitiva .
Pantafa costruisce i muscoli delle proprie articolazioni dentro un lungo percorso fatto di difficoltà genitoriali e di rapporti al limite dell’estremismo percettivo in cui ogni forma di vita può nascondere piccole entità capaci di intaccare lo stato della concreta materia terrena.
Un Abruzzo pieno di storia che porta il genere dentro le case dello spettatore attraverso un racconto nero capace di far riflettere. Un misterioso viaggio incerto dall’inizio alla fine.
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